Cop26. Il documento con le decisioni finali (Glasgow Climate Pact). Le analisi e i commenti dal punto di vista di ecopacifist* radical* e femminist*
Alle decisioni finali tradotte dall'inglese all'italiano facciamo seguire:
1 - un commento di Alfonso Navarra - portavoce dei Disarmisti esigenti
2 - il commento dell'Associazione a Sud
Il documento con le decisioni finali tradotto in italiano
Decisione -/CP.26 - Patto per il clima di Glasgow (Glasgow Climate Pact)
Il sesto rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici (*nota 1) e i recenti rapporti globali e regionali sullo stato del clima dall'Organizzazione meteorologica mondiale, e invita il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici a presentare i suoi prossimi rapporti all'Organismo sussidiario di consulenza scientifica e tecnologica nel 2022;
2 See document FCCC/CP/2021/10/Add.2-FCCC/PA/CMA/2021/7/Add.2.
3 See document FCCC/CP/2021/10/Add.1-FCCC/PA/CMA/2021/7/Add.1.
4 Available at https://ukcop26.org/wp-content/uploads/2021/10/Climate-Finance-Delivery-Plan-1.pdf.
5 FCCC/SB/2020/4 and FCCC/SB/2021/5.
6 Draft decision entitled "Glasgow Climate Pact" proposed under agenda item 2(c) of the Conference of the Parties serving as the meeting of the Parties to the Paris Agreement at its third session.
7
It is noted that discussions related to the governance of the Warsaw International Mechanism on Loss
and Damage associated with Climate Change Impacts did not produce an outcome: this is without
prejudice to further consideration of this matter
8 Available at https://unfccc.int/sites/default/files/resource/Improved%20Marrakech%20Partnership%202021- 2025.pdf.
9 Available at https://unfccc.int/regional-climate-weeks/rcw-2021-cop26-communique.
10 Decision 3/CP.25.
Commento di Alfonso Navarra - BLA BLA COP$ SI E' CONCLUSA CON IL FALLIMENTO ANNUNCIATO
13 novembre 2021, serata sciagurata. Abbiamo appreso in tempo reale la notizia, data subito dal TG2 delle 20:30, dal nostro delegato alla COP26, Ennio Cabiddu: i 196 Stati (più la UE) riuniti nella conferenza ONU hanno accettato, dopo 13 giorni di discussioni, il "Patto di Glasgow" - un brutto compromesso tra USA e Cina - per affrontare (a chiacchiere) i cambiamenti climatici e delineare le basi (d'argilla) per il suo finanziamento futuro.
(Da osservatore accreditato, pur essendo rientrato in Italia, nella sua Sardegna, Ennio, tramite una specifica piattaforma informatica, poteva ancora collegarsi alla sala del Palazzo Congressi in cui si svolgeva l'assemblea ONU e assistere ai negoziati come fosse presente di persona).
L'esito negativo per Disarmisti esigenti, WILPF e partners (Argonauti per la pace, Progetto Mediterraneo, XR Pace, etc.), a dire il vero, era scontato: proprio il giorno prima a Milano - il 12 novembre che era la data per la chiusura ufficiale dei negoziati a Glasgow che poi si sono prolungati - alla Darsena, dalle ore 16:00 alle ore 19:00, avevamo organizzato "BLA BLA COP$", un incontro con la cittadinanza, trasmesso da Radio Nuova Resistenza, in cui anticipavamo il succo di quello che sarebbe poi emerso il giorno dopo.
Nella convocazione già parlavamo di fallimento annunciato della COP26 riassumibile in tre punti: 1) promesse vuote sulla decarbonizzazione; 2) finalizzazione al business finanziario e delle multinazionali; 3) recupero del nucleare quale fonte presunta alleata delle rinnovabili.
(Una parte dell'incontro è visionabile al seguente link: https://www.nuovaresistenza.org/2021/11/bilancio-della-conferenza-sul-clima-di-glasgow-cop26-video/).
Diciamo che il documento finale che è emerso dopo i conciliaboli in extremis nei tempi supplementari del 13 novembre tra l'inviato americano John Kerry e quello cinese (entrambi si sono fatti scudo delle posizioni dei Paesi più arretrati) va ben oltre le peggiori previsioni, confermando in pieno lo scetticismo urlato di Greta Thunberg, la fondatrice dei "Fridays for future", cui questa volta non è stato concesso il palco istituzionale.
Anche a parole, in buona sostanza, si sono fatti dei passi indietro.
Si richiama, nel documento finale, la necessità di rispettare il tetto di 1,5° C di aumento della temperatura per fine secolo rispetto all'epoca preindustriale (dovremmo arrivare a 15,6°C di temperatura media globale quando già oggi siamo a 15,1°C) sapendo bene che le promesse di tagli di CO2 e altri gas climalteranti, non vincolanti, degli Stati porteranno, se va bene, a +2,7° C secondo l'UNEP.
L'artificio retorico per "vendere" qualche aspetto positivo all'opinione pubblica è quello che, a parole, l'obiettivo di contenere l'aumento della temperatura a 1,5°C diventa principale e i 2°C secondari, l'inverso che a Parigi, insomma.
Lo stesso documento ammette che la risposta all'urgenza climatica è insufficiente: le emissioni di CO2 aumenteranno del 14% al 2030 mentre dovrebbero diminuire del 45% per restare dentro l'1,5°C di aumento massimo.
Non vi è una scadenza tassativa per la decarbonizzazione grazie alla dicitura generica "entro la metà del secolo" che rende legittime la data cinese (2060) e quella indiana (2070).
Per il 2030 si auspica un taglio del 45% delle emissioni di anidride carbonica rispetto al 2010. Il testo invita i paesi a tagliare drasticamente anche gli altri gas serra (metano e protossido di azoto)
Resta il punto che le National Determined Contributions - NDC degli Stati, tagli di CO2 sempre volontari, dovranno essere rafforzati entro il 2022, e comunicati alla COP27 del Cairo.
Le energie fossili sono citate come parte del problema ma vi è ancora spazio per il loro impiego duraturo e per finanziarle "in modo efficace" e persino l'uscita dal carbone non è tassativa, anzi si ammette un suo "uso efficiente".
(Qui va inserito il colpo di scena finale dell'India che ha fatto cambiare phase out dal carbone in phase down, eliminazione con riduzione).
Non vi è un calendario per la fine delle sovvenzioni alle energie fossili ed anzi si apre la strada ai bond sedicenti "sostenibili" per il nucleare (appaiato con il gas quale "fonte transizionale") con la UE a fare da apripista con la sua tassonomia in dirittura d'arrivo.
La promessa dei 100 miliardi di aiuti ai Paesi in via di sviluppo, di cui si parla da 12 anni e mai mantenuta, è rimessa di fatto in discussione. Il documento invita i paesi ricchi a raddoppiare i loro stanziamenti, e prevede un nuovo obiettivo di finanza climatica per il 2024. Ma nel testo non è fissata una data per attivare il fondo per gli aiuti alla decarbonizzazione. Uno strumento previsto dall'Accordo di Parigi e mai realizzato: si vede che i paesi ricchi non vogliono tirare fuori i soldi...
In questa logica non è accettato e tanto meno attivato il fondo separato per le vittime che compensi "le perdite e i danni" (che aprirebbe una miriade di contenziosi internazionali). Il testo prevede solo che si avvii un dialogo per eventualmente istituirlo.
La Cop26, nel momento stesso in cui toglie loro la parola, riconosce l'importanza di giovani, donne e comunità indigene nella lotta alla crisi climatica, e stabilisce che la transizione ecologica debba essere "giusta ed equa".
La Cop26 vara le linee guida per tre previsioni dell'Accordo di Parigi che finora erano rimaste inattuate: il mercato globale delle emissioni di carbonio (articolo 6), il reporting format con le norme con cui gli stati comunicano i loro risultati nella decarbonizzazione (trasparenza) e le norme per l'attuazione dell'Accordo di Parigi (Paris Rulebook).
Ma, in sostanza, non ci sono regole chiare che impediscono che si imbrogli sui dati: ed il più grande imbroglio, aggiungiamo noi, è che non si calcolino le emissioni derivanti dalle attività militari, stimabili intorno al 20% del totale.
Sul fronte degli accordi internazionali raggiunti durante la Cop26, la novità più clamorosa è il patto di collaborazione fra Usa e Cina sulla lotta al cambiamento climatico. Le superpotenze rivali, smentendo di essere in "guerra fredda", accettano di lavorare insieme su tutti i dossier che riguardano il clima, dalle rinnovabili alla tutela degli ecosistemi.
Poi ci sono l'accordo fra 134 paesi (compresi Brasile, Russia e Cina) per fermare la deforestazione al 2030, con uno stanziamento di 19,2 miliardi di dollari, e quello per ridurre del 30% le emissioni di metano al 2030 (ma senza Cina, India e Russia). Venticinque paesi (fra i quali l'Italia) hanno deciso di fermare il finanziamento di centrali a carbone all'estero, e altri 23 di cominciare a dismettere il carbone per la produzione elettrica.
Oltre 450 aziende, che rappresentano 130.000 miliardi di dollari di asset, hanno aderito alla coalizione Gfanz, che si impegna a dimezzare le emissioni al 2030 e ad arrivare a zero emissioni nette al 2050. Una trentina di paesi e 11 produttori di auto (ma non ci sono né l'Italia né Stellantis) si sono impegnati a vendere solo auto e furgoni a zero emissioni entro il 2035 nei paesi più sviluppati, ed entro il 2040 nel resto del mondo.
Nelle sue corrispondenze Ennio Cabiddu sottolinea che "abbiamo a che fare con 26 sfumature di COP" perché abbiamo assistito a diversi accordi tra alcuni Stati in vari settori: si pensi al BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance) tra 12 Paesi comprendenti l'Italia; o agli accordi sul metano e sulla deforestazione (per 100 Paesi da stoppare entro il 2030).
Le sfumature che più ci piacciono riguardano l'impegno della società civile manifestato con il corteo studentesco dei 50mila il 5 novembre (School Strike for Climate) e soprattutto quello dei movimenti del 6 novembre (Global Day of Action). Una memorabile e festosa manifestazione di 200.000 mila persone, nutrita dalla partecipazione massiccia, nonostante il maltempo, di movimenti, sindacati, ONG, associazioni, gruppi religiosi, reti per la giustizia razziale, gruppi giovanili e tante altre realtà, anche pacifiste, provenienti da tutto il mondo.
Questa manifestazione, con in testa i movimenti indigeni dell'America Latina e delle popolazioni africane, rappresenta la crescente consapevolezza dell'emergenza climatica da parte dell'opinione pubblica mondiale. Essa ha dato potenzialmente corpo al valore della terrestrità e ai contenuti della Cop26 Coalition per una politica globale in grado di dare risposte concrete alla crisi climatica, partendo dal sostegno ai Paesi in via di sviluppo che non hanno a disposizione le risorse per avviare la transizione.
Noi facciamo parte della componente che ha lavorato e lavora per la convergenza sull'azione climatica per la pace: la pace con la natura che, attraverso il disarmo, diventa condizione per la pace tra gli esseri umani in una società giusta, di eguali liberi e liberati dall'oppressione sulle donne, sui diversi, sulle minoranze di ogni genere.
A Glasgow dall'Italia siamo partiti con due obiettivi:
- Inserire le attività militari nel calcolo delle emissioni e quindi il loro taglio quale contributo essenziale alla soluzione del problema climatico;
- Vigilare contro il ritorno del nucleare civile autoproponentesi come alleato delle rinnovabili ma in realtà funzionale alla potenza militare.
Per il momento ci sembra di non aver trovato molto spazio per i nostri temi ma il nostro lavoro per sensibilizzare l'opinione pubblica e gli stessi movimenti andrà avanti, secondo il motto di un grande pensatore e rivoluzionario, di origine sarda ma appartenente all'umanità, "con il pessimismo dell'intelligenza e l'ottimismo della volontà".
Un primo ed urgente momento di impegno sarà la campagna perché il governo italiano, rispettando la volontà popolare espressa inequivocabilmente in due referendum (1987 e 2011), non resti in un finto silenzio ma prenda posizione contro l'inclusione del nucleare (ma anche del gas e della CCS) nella tassonomia che la UE dovrebbe varare il 7 dicembre.
Un secondo impegno di più lungo periodo riguarda un ICE (Iniziativa dei cittadini europei) sull'adesione al TPAN (Trattato di proibizione delle armi nucleari); ICE - cioè raccogliere un milione di firme in almeno 7 Paesi della UE, di cui vanno poggiate le fondamenta costruendo un effettivo coordinamento antinucleare europeo: noi continuiamo a lavorare, in direzione ostinata e contraria, animati dal gramsciano "pessimismo dell'intelligenza e ottimismo della volontà".
Associazione a Sud: la COP flop chiude senza impegni
"Non possiamo aspettare le loro decisioni. Portiamo gli Stati in tribunale"
Dopo il susseguirsi di bozze, la COP26 arriva al documento finale ma si tratta di un preoccupante passo indietro su tutti i fronti. Il vertice di Glasgow elabora risposte vaghe e non all'altezza della sfida: dalla road map di decarbonizzazione, al ruolo delle fonti fossili, fino alle regole per implementare l'accordo o alla finanza climatica. La COP scozzese sarà ricordata come l'ennesima occasione persa nella corsa contro il tempo per fermare l'emergenza climatica. E l'Italia non fa meglio.
La questione centrale resta quella degli obiettivi di riduzione delle emissioni. Nel documento finale resta il riferimento agli 1,5 °C di riduzione della temperatura entro il 2030, ma si tratta di un'intenzione non sostenuta da impegni. Perché di nuovo quell'obiettivo è indicato solo come "raggiungibile", ma non vincolante. E soprattutto, non è legato alla necessità, per i paesi, di tagliare la quantità di emissioni necessaria a realizzarlo. Come a dire: certo sarebbe bellissimo arrivarci ma ad assumere impegni pensiamo - forse - la prossima volta.
Occorrerà attendere infatti altri 12 mesi, la fine del 2022, per fare un bilancio sulla revisione (si spera al rialzo) degli NDC nazionali, ovvero dei contributi di riduzione delle emissioni che ogni Paese parte è chiamato a elaborare.
Nel frattempo, nel capitolo dedicato alla mitigazione si accenna alla riduzione al 2030 delle emissioni di gas a effetto serra, invitando ad accelerare l'eliminazione dell'energia prodotta da quelle fonti la cui tecnologia "non permette di abbattere le emissioni". Tradotto: riduciamo il carbone ma via libera al gas e alle tecnologie come la cattura e lo stoccaggio dell'anidride carbonica. Tecnologie che non risolvono il problema ma lo spostano in avanti nel tempo, oppure dall'atmosfera al sottosuolo.
Con le decisioni in campo, includendo anche i timidi passi di Glasgow, gli scenari a fine secolo sono desolanti. Dai +2,4°C calcolati dal CAT ai quasi +5°C prospettati nel peggior scenario IPCC al 2100. Significa indicatori climatici impazziti, migrazioni di massa, conflitti armati. La fine del mondo per come lo conosciamo.
«Gli impegni presi a Glasgow spostano ancora in avanti gli orologi rimandando ai prossimi incontri la decisione più importante: l'aumento dei target di riduzione delle emissioni. Non c'è neanche l'ombra dell'atteso accordo globale sul phase out dal carbone. Sul metano il passo avanti è minimo. I 5,7 trilioni di dollari di sussidi globali alle fonti fossili potranno continuare ad essere erogati senza disturbo. A meno che non siano "inefficienti" dunque degni di essere "gradualmente" eliminati. Il multilateralismo sarà pure faticoso e basato sul compromesso, ma l'incapacità di mettere sul tavolo impegni concreti ha un prezzo troppo alto da pagare, è un futuro di devastazione imposto come destino a tutti i popoli del pianeta» commenta Marica Di Pierri, portavoce di A Sud. Dal testo finale sono poi spariti i 100 miliardi promessi entro il 2023 ai Paesi meno sviluppati (less developed). Un impegno formulato per la prima volta nel 2009 alla COP15 di Copenaghen e confermato a Parigi nel 2015, ma da allora mai tradotto in realtà. Per Laura Greco, presidente di A Sud «è incredibile che anche a Glasgow, come in tutte le occasioni precedenti, una volta arrivati al punto, i paesi industrializzati si siano tirati indietro, non riconoscendo le proprie responsabilità storiche e ignorando che il trasferimento di fondi e tecnologie è essenziale per correggere il carico di ingiustizia e di violazione dei diritti umani che l'emergenza climatica scarica sui paesi più vulnerabili». Anche i pochi punti che rappresentano dei seppur timidi passi avanti, ad esempio l'accordo per fermare la deforestazione al 2030 o il mini accordo sul metano hanno un limite non da poco: sono manifestazioni di intenti non vincolanti e senza l'esistenza di meccanismi di controllo e sanzione la loro implementazione resta tutta da vedere.
Per questo riteniamo che non ci sia scelta. Non possiamo sperare in una risposta dall'alto. Dobbiamo agire. Dobbiamo fare causa agli Stati, alle imprese, ai rappresentanti delle aziende fossili, e costringerli per via giudiziaria a rispondere in Tribunale delle loro responsabilità. Giudizio Universale, la causa italiana lanciata da oltre 200 ricorrenti tra orgnaizzazioni e cittadini partirà con la prima udienza contro lo Stato italiano il 14 dicembre.
L'Italia passerà alla storia per quello che non ha deciso
L'Italia esce dalla COP26 collezionando strette di mano, selfie, sorrisi ma poco altro. Si è sfilata dall'accordo sul settore automotive per un'uscita rapida dalla produzione di veicoli a benzina e il nostro ministro Roberto Cingolani è tornato a parlare di nucleare come panacea di tutti i mali e del gas come migliore amico della transizione.
Quando si è trattato di prendere posizione sulle fonti fossili Cingolani è tornato a fare spallucce: all'alleanza BOGA (Beyon Oil and Gas Alliance), che punta a una graduale eliminazione della produzione di petrolio e gas attraverso obiettivi tangibili e misurabili, il nostro Paese darà il suo sostegno "as a friend" ovvero come osservatore esterno, senza impegnarsi a prendere alcuna decisione.
Ad oggi, a politiche correnti, l'Italia ridurrà di appena il 26% le emissioni al 2030, circa la metà del più blando dei target raccomandati della comunità scientifica. Con il PNIEC ha previsto di aumentare la percentuale al 36%, ma il piano implementativo langue. Se tutti i Paesi seguissero il nostro esempio lo scenario a fine secolo sarebbe torrido, con +3 °C di temperature medie. Calcolando il carbon budget dell'Italia e le sue responsabilità storiche, in uno studio commissionato da A Sud, Climate Analytics, una delle più importanti organizzazioni che si occupano di ricerca sul clima, ha calcolato che il nostro paese dovrebbe diminuire le sue emissioni di ben il 92% entro il 2030 per poter rimanere in linea con gli accordi di Parigi. Più del triplo di quanto attualmente in campo.
«L'Italia non è un buon esempio in ambito climatico. Anche in questi negoziati si è distinta per ciò che non ha voluto decidere. Non stupisce, dato che al di là di una retorica istituzionale molto green, è tra i Paesi europei che nel PNRR investe meno sulla cosiddetta transizione energetica. Abbiamo target di riduzione ridicoli, continuiamo a parlare di nucleare mentre tutto il mondo ci chiede di puntare sulle fonti rinnovabili. Preferiamo voltarci dall'altra parte anche di fronte ai disastri climatici che sempre più spesso riguardano il nostro territorio. Da questa consapevolezza ha preso le mosse Giudizio Universale, l'azione legale climatica che abbiamo promosso contro lo Stato. Chiediamo al giudice di dichiarare che l'Italia è responsabile di inazione climatica e che i target di riduzione nazionali vanno rafforzati senza rimandare oltre. Il 14 dicembre saremo in tribunale a Roma per la prima udienza. Visto che i luoghi di governance non bastano, porteremo le rivendicazioni di giustizia climatica nelle piazze e nei tribunali», conclude la portavoce di A Sud Marica Di Pierri.
Nei giorni scorsi a sostegno della causa contro lo Stato è stata lanciata una petizione su Change.org per chiedere al governo Italiano di aumentare considerevolmente i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni clima-alteranti.
* * *
Info e contatti stampa:
____________________
Marica Di Pierri
+39 348 6861204
Madi Ferrucci
+39 3405941137